Il latte dei sogni. Elementi di BelGioco alla Biennale di Venezia

Il latte dei sogni. Elementi di BelGioco alla Biennale di Venezia

“Il filo conduttore di un loop infinito: è così che i giochi vengono tramandati attraverso i popoli e le culture: i loro creatori restano sconosciuti. Un gioco è una droga non violenta che promette immaginazione e forza al futuro adulto, il quale si spera dedicherà tempo e spazio. Attraverso il gioco i bambini possono mettere in pratica processi di risoluzione dei problemi. E di giochi ce n’è per tutti i gusti. Ci sono giochi pacati, ‘violenti’, solitari, di gruppo, calmi, adrenalinici, silenziosi e rumorosi. Quasi tutti i giochi si basano sulle risorse a disposizione, alimentando la tensione tra la fatica e il desiderio di essere il migliore. Se dovessimo ricominciare tutto da capo, tutti sceglierebbero di giocare”

(Jean  Katambayi, Picha! Collective, Belgium Pavillon)

Dal Buon gioco al ‘BelGioco’

Esplorando gli spazi allestiti tra l’Arsenale e i Giardini, alla ricerca di elementi e spunti che potessero richiamare gioco e giocosità, mi imbatto dapprima in PLAY (2019), la videoinstallazione realizzata dall’artista norvegese Liv Bugge con filmati in 16mm che ritraggono un branco di husky siberiani. Cresciuta in una famiglia che praticava la corsa con i cani da slitta, ha trascorso molto tempo in un campo per l’addestramento cinofilo, trovando tra le decine e decine di husky i propri amici e compagni di giochi. 

Play2019

Grazie a loro, l’artista ha imparato un modo di vivere basato sulla collaborazione e sulla comunicazione non verbale, maturando interesse verso la complessità di cicli vitali sovrapposti e sperimentando simili tematiche nella propria arte. 

“Il gioco è il modo che ha l’evoluzione per assicurarsi che gli animali acquisiscano e perfezionino delle abilità preziose in circostanze di relativa sicurezza” afferma il biologo Richard Byrne. Infatti, è sufficiente osservare il regno animale per verificare quanto il gioco sia fondamentale per la natura umana e comprendere il motivo per cui potremmo esserci evoluti, ricercando e traendo piacere dal divertimento. 

Rappresentata nella sua quotidianità e senza alcuna enfasi, la vita di questi husky suggerisce un modello di sopravvivenza diverso da quello dell’aggressione e della forza; un tacito rapporto di collaborazione tra umani e animali diventa il contenuto determinante e la composizione dell’opera.

E poi, sulla ‘via dei Giardini’, rimango folgorato dal BelGiocoso e BelGioioso padiglione del BelGio(co). 

The nature of the game è tra le installazioni più coinvolgenti del percorso espositivo. Dopo un prologo iniziale, una sorta di una camera di contenimento preparatoria ai ‘fuochi di artificio giocosi’, con una serie di dipinti stranianti e metafisici, Francis Aly͏̈s, artista nato ad Anversa, cambia registro e trasforma il padiglione in una sorta di multisala cinematografico open space; un unico ambiente immersivo dove sugli schermi sono proiettati simultaneamente, come in un infinito loop di giochi, i video che Aly͏̈s realizza fin dalla fine degli anni novanta sul mondo dell’infanzia. Pillole cinematografiche della durata di circa cinque minuti ciascuna, che mettono in scena la capacità immaginativa dei più piccoli in grado di fuggire con la fantasia dai luoghi più martoriati, inventando nuove regole e rinnovati linguaggi. Tutto questo, tutta questa gioia e questa allegra improvvisazione giocosa, si svolge tra le rovine della povertà e della guerra.

Come mi capitò lo scorso anno durante la visita alla Biennale di Architettura, con l’esperienza dei Playescape of Exile . Queste testimonianze ci aiutano a comprendere la portata narrativa delle immagini che raccontano storie: scatti fotografici di Wissam Chaaya, Architectural and Interior Photography nel caso dei ‘parchi giochi dell’esilio’, immagini in movimento nel lavoro ventennale di Aly͏̈s .

The Nature Of The Game

The nature of the game rappresenta un tributo a Peter Bruegel, compatriota di Aly͏̈s; infatti, nel dipinto del pittore olandese (1560), possiamo immergerci in una brulicante veduta della piazza di un paese con gruppi di bambini sparpagliati che mettono in scena circa ottanta giochi dell’infanzia. 

Bruegel

Analogamente, l’artista di origine belga trasforma il padiglione in un parco giochi che connette i contesti culturali dell’intero globo, attraverso il gioco dei bambini come filo conduttore.

Il gioco è qualcosa di naturale, qualcosa che scopriamo e impariamo istintivamente nella nostra infanzia. È un bisogno umano essenziale. È necessario prendere tempo, impiegare tempo e ‘perdere’ tempo giocando. Il gioco dei bambini è da intendersi come una relazione creativa con il mondo. Il senso più elementare del divertimento si basa sull’improvvisare con i doni che l’ambiente casualmente offre e i bambini sono veri e propri ‘Master’ a riguardo.

Dal 1999, la telecamera di Francis Alÿs riprende i bambini che giocano nello spazio pubblico. Ha iniziato con il video Children’s Game #1: Caracoles, in cui si vede un ragazzino che, a calci, fa risalire una bottiglia su una strada ripida, per poi lasciarla rotolare giù e calciarla su di nuovo. 

Sono diventati iconici i fotogrammi del bambino che dalle colline desolate di Lubumbashi, in Congo, rotola giù da una collina all’interno di uno pneumatico, o le immagini della partita senza pallone che si svolge in una strada devastata di Mosul, in Iraq. L’intento etnografico dell’artista non va a scapito della poesia: nel gioco della morra cinese girato a Città del Messico sul terreno compaiono solamente le ombre delle ‘figure’ generate dalle mani e commentate dalle ridenti parole di due bimbe. 

“Ed è in certi sguardi [quelli dei bambini] che si intravede l’infinito” (Franco Battiato)

Ritroviamo forza e consolazione nei suoi commoventi filmati che registrano, in chiave etnografica, sia il potere della tradizione culturale sia gli atteggiamenti autonomi dei bambini, anche nelle situazioni più conflittuali.

L’intera galleria dei video è fruibile cliccando qui

Padiglione Belgio Interno

Storie di gioco intrecciate tra loro, come gli incantati dipinti su seta dell’artista britannica Emma Talbot, una sorta di raffinato ricamo narrativo, che ci rilascia, fin dalla nostra nascita, nel chaos e prova a pilotarlo attribuendone un senso condiviso, attraverso le relazioni. Opere che sollevano interrogativi su che cos’è la natura e su come – o se – vi si possa effettivamente “fare ritorno” in modo etico.

Emma Talbot

La bellezza è un nutrimento essenziale dell’essere umano, è esperienza dell’alterità e della relazione. Perché ogni cosa del mondo è in relazione, e la relazione è l’essenza delle cose: tra esseri umani, tra umani e mondo, tra umani e idee. La sfera personale diventa ‘politica’ quando è condivisa, cioè quando la persona entra in relazione con le altre e ricomincia a percepire il mondo come un luogo pieno di meraviglia. Carlo Rovelli racconta che la migliore descrizione della realtà, dal punto di vista della fisica, è un susseguirsi di eventi che tessono una rete di interazioni. Il singolo ente non è che un effimero nodo di questa rete: ogni cosa è solo ciò che si rispecchia nelle altre e «l’interconnessione delle cose, il riflettersi l’una nell’altra, splende di una luce chiara»; ogni umano non è che una singola, mera increspatura in una «rete di reti». (Maura Gancitano, Specchio delle mie brame)

E cosa può tenere maggiormente insieme, come un magico collante, questa rete di interazioni meglio del gioco?

Mani Unite

Un trittico di temi in gioco

La Biennale del “ritorno a stare insieme” esprime un cambiamento epocale nell’impostazione. Per la prima volta le donne sono molto più numerose degli uomini, ovunque, dai Giardini all’Arsenale. Un intero cast, per troppo tempo rimasto ai margini, oggi recita sul proscenio. Cecilia Alemani, la curatrice della 59° edizione della Biennale, ha scelto come punto di partenza il libro per ‘bambini’ Il latte dei sogni (Adelphi, 2018) realizzato dalla pittrice surrealista Leonora Carrington (1907-2011). Storie di trasformazione nate da figure dipinte sulle pareti dell’artista a Città del Messico.

Il Latte Dei Sogni

Sarà proprio in Messico che la Carrington si afferma nella sua dimensione affettiva e creativa; scrive, dipinge e come abitudine appende alle pareti della casa i suoi disegni. Tuttavia, queste opere fanno paura ai suoi bambini; allora Leonora per tranquillizzarli comincia a scrivere (e a illustrare) storie fantastiche e divertenti. L’artista surrealista ha descritto un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare trasformarsi, diventare altro da sé. Alle creature fantastiche di Carrington è dunque affidato il compito di accompagnare visitatrici e visitatori attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano.

Il Latte Dei Sogni Storia

Il Latte dei sogni, espressione metaforica e suggestiva, come quella del latte materno che placa le tempeste di lacrime, accompagna e addolcisce i mosaici onirici di bimbe e bimbi; quasi una forma di meditazione che sostiene i loro profondi respiri, mentre la ‘montata lattea’ compie il suo percorso trasformativo.

Roberto Benigni e Massimo Troisi nel 1984 giravano e interpretavano Non ci resta che piangere; invece a noi Non ‘ci’ resta che sognare (e giocare!). L’antidoto ai tempi tormentati che stiamo vivendo, ‘surreali’ come quelli di cento anni fa (nel 1924 André Breton pubblica il primo manifesto del Surrealismo), alla pandemia e agli orrori delle guerre. Un itinerario avvincente e convincente sul tema della metamorfosi dei corpi e sulle identità ibride e fluttuanti, sulla relazione tra individui e tecnologie e sul rapporto che ci lega alla nostra Madre Terra. Un insieme magico di artiste e artisti che, raccogliendo l’eredità della corrente surrealista, col linguaggio del sogno e della metamorfosi propongono tematiche di grande attualità come le questioni legate alla razza e all’identità di genere, ma anche all’ambiente, all’ecologia. Specchio di un tempo di drammatiche inquietudini e cambiamenti, ci confrontiamo con una Biennale allestita non solo per sognare, ma anche per pensare.

“La magia è il mezzo per avvicinarsi all’ignoto per vie diverse da quelle della scienza o della religione”.

Con queste parole Max Ernst esprime nel 1946 la visione del Surrealismo in una modernità razionalizzata appena uscita dalla Seconda guerra mondiale. D’altronde, avvicinarsi all’ignoto e rendere visibile l’invisibile non è proprio il compito dell’imprevedibile Gioco dell’Arte? 

“Carrington parlava del modo in cui definiamo la vita, di ciò che ci distingue dalle altre creature. Possiamo immaginare un mondo in cui il corpo possa trasformarsi e diventare qualcos’altro?” (Cecilia Alemani)

La curatrice ha strutturato ‘il più antico studio sull’arte contemporanea al mondo’ attorno a tre temi e a cinque ‘capsule del tempo’. Il primo è la rappresentazione di come i corpi possano trasformarsi. Il secondo rappresenta il rapporto tra individui e tecnologia. Il terzo ambito fa riferimento al legame tra i corpi e la Terra. In particolare Alemani si è ispirata alla studiosa e teorica del femminismo Silvia Federici che aveva immaginato un mondo senza gerarchia, un pianeta in cui l’uomo non si trova in cima alla piramide, un mondo caratterizzato da “simbiosi e incanto”. Una Biennale del post-umano che documenta la fine della centralità del genere umano. L’idea di una narrazione artistica che incanta, racconta la curatrice, è un elemento trasversale che ritorna molto spesso, soprattutto all’Arsenale, che è in sé una “fabbrica del meraviglioso”.

Fonti