Nascondino Ancestrale

Nascondino Ancestrale

Uno, due, tre, quattro…
ti nascondi quatto quatto.
 
 
Qualche giorno fa ho avuto l’onore di ospitare Dario Massa, designer di esperienze ludiche, membro del Mensa ed essere umano dalla mente e il cuore illuminati, in un Playtalk di Playfactory. Parlavamo dei giochi in quanto sistemi che hanno una vita propria, la capacità di parlarti, di invitarti a giocarli ancora ed ancora; con voci diverse, un carattere, un’anima, una potenza.
 
 
Qualche ora dopo giocavo tra me e me con l’idea di individuare ‘dove’ quell’anima, quella potenza, potessero risiedere. La risposta più immediata era che abitassero nelle regole, quale elemento davvero indissolubile di un gioco. Poi ho pensato a uno dei giochi più potenti dell’umanità.
Ho pensato al Nascondino.
E ho pensato che non c’è dubbio che la sua potenza risieda nella regola del nascondersi, del cercare, del trovare, del correre per salvarsi o per salvare il mondo intero – con il ‘libera tutti’.
Sono dinamiche così primordiali, vivide e così strettamente legate alla nostra natura umana che va da sé immaginarne la potenza.
Ma poi ho pensato ad un altro aspetto, che seppure meno visibile, non può ai miei occhi non giocare un ruolo predominante in questa potenza.
 
 
Ho considerato che il Nascondino è stato giocato per migliaia di anni, ovunque sulla Terra e, nel tempo, da miliardi e miliardi di persone di ogni età, cultura ed estrazione sociale. Intrattenevo questo pensiero, e più cercavo di computare quella vastità nel mio piccolo cervello e più mi si allargava un sorriso Duchenne sulla faccia: perché non ci riuscivo.
Dario Massa in questo avrebbe sicuramente potuto aiutarmi.
 
 
Ecco dunque, il Nascondino, io me lo immagino portarsi dentro la somma intera, fin dall’alba dei tempi, di tutte le volte che è stato giocato, di tutte le emozioni che ha provocato e di tutta l’energia che ha messo in moto.
 
 
Perché me lo immagino così?
Perché la mia schiena arriva fino al mare.
 
 
Cinque, sei, sette, otto…
se ti trovo vai tu sotto.
 
 
C’erano due esercizi estremamente rivelatori che si facevano alla International School of Storytelling – forse il luogo dell’esperienza educativa più magica che io abbia mai vissuto – per imparare a stare sulla scena con la piena presenza e il sostegno di cui avevi bisogno.
Il sostegno dello spazio. Il sostegno del tempo.
 
 
Il primo esercizio evocava lo spazio.
Stavi in piedi appoggiata di spalle a una parete della stanza che dava sull’esterno; chiudevi gli occhi; ti rilassavi; sentivi la parete toccarti le spalle, la schiena, i palmi e le dita delle mani; ti prendevi tutto il tempo necessario per notare la stabilità della parete e il sostegno che ti dava, e per apprezzare quel supporto; e poi, sempre con gli occhi chiusi… andavi oltre. Sentivi il sostegno di ciò che c’era al di là della parete, appena fuori dall’edificio: delle altre case, e poi del limitare della campagna; e poi ancora più indietro, il sostegno degli alberi, dei prati, dei campi, proprio dietro alla tua schiena; e poi ancora oltre, oltre i boschi, le colline… fino al mare; sentivi come tutta quella vastità ti stesse sostenendo, la sua intenzione nel farlo, il suo amore.
Era come se il tuo stesso corpo si estendesse fino al mare, e oltre.
E quando eri pronta, ti staccavi dalla parete e cominciavi a camminare, lentamente, sostenuta da tutta quell’immensità.
 
 
La metà del pianeta dietro di te camminava con te, andava dove tu andavi, ti accompagnava, ti amava.
 
 
Lo praticavi fino a quando ti bastava un attimo per concentrarti e sentire quel sostegno.
E quando eri al centro della scena, e ti apprestavi a raccontare la tua storia, ti prendevi quell’attimo per lasciarti sorreggere dal mondo, e allora sì, raccontavi.
 
 
Nove, dieci, undici, dodici…
ché se piove siamo fradici.
 
 
Il secondo esercizio, una volta che avevi a disposizione il sostegno dello spazio, era un viaggio anche questo all’indietro, ma nel tempo.
L’archivio delle storie tradizionali – di creazione, mitologiche, folkloriche, di animali… – è incommensurabile, ma se ti accingi a raccontare una qualsiasi storia tratta da una qualsiasi tradizione è certo che quella stessa storia sia stata raccontata milioni di volte da milioni di persone nell’arco dei secoli, se non dei millenni.
In verità, questo vale anche per una storia autobiografica, tua, della tua vita. A un livello profondo tutte le storie della tua vita sono già state raccontate milioni di volte. Ma questo è argomento per un altro articolo.
 
 
L’esercizio ti chiedeva di stare in piedi, al centro della scena, rivolta verso la platea, con gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi ma leggermente discoste dal corpo, leggermente aperte; e così le mani, aperte e rivolte in avanti, come a ricevere ma allo stesso tempo a dare.
E allora, un po’ come l’esercizio della parete, incominciavi a immaginare ogni singola persona che nel tempo aveva raccontato quella stessa storia. Le immaginavi comparire una ad una appena dietro di te, a formare un fila sempre più lunga, ed ognuna pronta a proferir parola e a raccontare quella storia. Ogni singola persona, con la sua corporatura, la sua età, gli abiti della sua cultura e del suo tempo – chissà magari in costume durante uno spettacolo itinerante, una fiera medievale, una festa sacra, o magari semplicemente una sera intorno al fuoco – e ogni singola persona con la sua motivazione, la sua ragione, per raccontare proprio quella storia.
Una ad una, da te in quel preciso istante e indietro fino all’alba dei tempi.
 
 
Continuavi ad immaginare fino a quando sentivi stabile la presenza di tutte loro, dietro di te, a sostenerti nel raccontare quella storia.
E allora sì, aprivi gli occhi, sorridevi, e cominciavi a raccontarla.
Lo facevi insieme a loro. Con una potenza che andava ben oltre te, ben oltre il luogo, ben oltre il tempo.
 
 
Tredici, quattordici, quindici, sedici…
se non esci c’hai le cimici.
 
 
Dunque, mentre ripensavo alla conversazione con Dario e a quei due esercizi, mi son detto: e se la potenza del Nascondino fosse la somma intera di tutte le volte che nel tempo e nello spazio è stato giocato?
La somma intera delle emozioni, della gioia, la foga, l’eccitamento, il fiato sospeso, il cuore che batte all’impazzata mentre corri senza voltarti indietro, della tua voce che urla ‘tana libera tutti!’…
Soltanto non solo le tue, di emozioni, ma di tutte, proprio tutte, quelle persone che le hanno provate prima di te.
 
 
Così me lo immagino il Nascondino, che si porta dietro e dentro questo accumulo di energia ancestrale pulsante.
 
 
E voglio provarci la prossima volta che ci gioco, appena prima di cominciare, a chiudere gli occhi per qualche istante, giusto il tempo di immaginare tutti quegli esseri umani nel tempo e nello spazio che hanno giocato e amato questo gioco. Evocarli, invitarli a rigiocare con me.
 
 
Io e quel bambino egizio col fiato sospeso rannicchiati dietro al cespuglio che ci scambiamo uno sguardo d’intesa prima di uscire allo scoperto e correre verso la tana incustodita.
Io e quella bambina di una tribù australiana che sfrecciamo guizzanti e silenti come lepri mentre quel bambino dei quartieri di Yokohama del dopoguerra sta guardando altrove.
Io e quei venti bambini di ogni luogo e di ogni tempo che stiamo sotto, con la testa tra le braccia appoggiate al muro, e facciamo la conta insieme, in venti lingue differenti.
 
 
Diciassette, diciotto, diciannoveee… venti!
Tremate, ché a scovarvi siamo in tanti!
 

Di poche cose sono certo. Una di esse è che in questo preciso istante, e in ogni istante che lo seguirà, c’è e ci sarà qualcuno al mondo che sta giocando a Nascondino.

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